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Divina Commedia - Titolo


Sul titolo esatto del capolavoro dantesco non esistono dubbi, da quando fu accertato che l'epiteto 'divina' fu aggiunto alla dizione originale, Comedia o Commedia, a cominciare dall'edizione veneziana del 1555 stampata da Gabriele Giolito e allestita da Ludovico Dolce. Appare probabile, se non addirittura certo, che il Dolce abbia cavato tale attributo per il frontespizio della sua edizione dantesca non tanto dal De Origine, vita, studiis et moribus viri clarissimi Dantis Aligerii poetae illustris et de operibus compositis ab eodem di Giovanni Boccaccio (nella prima redazione), ove spesso compare per la prima volta a sottolineare l'eccellenza del poema, quanto dal Cesano di Claudio Tolomei, stampato nello stesso anno dal. Giolito (ma probabilmente conosciuto manoscritto dal Dolce), nel quale ricompare con il medesimo significato la giuntura della fonte ultima, la biografia boccacciana. Non si deve peraltro escludere che il Dolce abbia utilizzato l'epiteto con fini e valori semantici diversi (divina, "che tratta di argomenti oltremondani"), quegli stessi che hanno immediatamente decretato la fortuna di un titolo storicamente giustificabile quanto sostanzialmente arbitrario. Il titolo originale suona dunque Comedia o Commedia, dato che nel Medioevo la forma scempia si alterna alla geminata, accentato sulla i alla greca, come conforterebbe a ritenere l'impiego dantesco (If xvi 128 e xxi 2), secondo i suggerimenti di taluni etimologisti del tempo (per es. Giovanni di Garlandia) il recente editore critico del poema, liberatosi finalmente dalla tradizione 'vulgata', ha optato per Commedia, anche se nelle rubriche antiche ai canti, da lui accolte nell'edizione, compare la forma scempia. Ce ne assicurano da un lato la tradizione manoscritta ed esegetica, concorde, nell'oscillazione grafica già menzionata, sull'intitolazione generica, specificata e chiarita dai titoli singoli premessi a ciascuna cantica (Inferno, Purgatorio, Paradiso), dall'altro le esplicite dichiarazioni di Dante nella Epistola a Cangrande (xiii 37), nella quale distingue esemplificando: "Patet etiam de libri titulo; nam titulus totius libri est 'Incipit Comoedia etCommedia ', ut supra; titulus autem huius partis est ' Incipit cantica tertia Comoediae Dantis etCommedia quae dicitur Paradisus '"..
Molto controverse sono invece oggi le posizioni degl'interpreti intorno alle ragioni dantesche della scelta del titolo generico e al suo significato, per via delle diverse giustificazioni che Dante stesso ne offre. Nella prima, contemporanea o di poco precedente l'ideazione del poema (VE II iv 5-6) è teorizzato: Deinde in hiis quae dicenda occurrunt debemus discretione potiri, utrum tragice, sive comice, sive elegiace sint canenda. Per tragoediam superiorem stilum inducimus, per comoediam inferiorem, per elegiam stilum intelligimus miserorum. Si tragice canenda videntur, tunc assumendum est vulgare illustre, et per consequens cantionem [oportet] ligare. Si vero comice, tunc quandoque mediocre, quandoque humile vulgare sumatur... Si autem elegiace, solum humile oportet nos sumere. A questa altezza Dante definisce il genere comico in contrapposizione a quello tragico sulla base di qualificazioni stilistiche rispetto a diversi livelli espressivi, che la tradizione classica e medievale insegnava da tempo: nella fattispecie distingue uno stile elevato adatto alla tragedia, uno mediano per la commedia, uno umile per l'elegia. Se lo stile tragico si fonda sul volgare illustre e sul genere lirico della canzone (ma tragedìa è anche per Dante l'Eneide di Virgilio: cfr. If xx 113), la scelta del titolo sarebbe inizialmente (e quindi almeno per la prima cantica) giustificata dal fatto che l'opera è scritta in un volgare che si mantiene dal lato espressivo su registri 'mediocri'. Ma nel prosieguo del tempo,a mano a mano che il disegno del poema si veniva attuando nella tripartizione tonale e materiale delle cantiche e dei mondi ivi raffigurati, Dante aggiunse alla prima altre ragioni in favore del titolo prescelto come appare da quell'Epistola a Cangrande (xiii 28-31) che cronologicamente coincide con la stesura dei primi canti dell'ultima cantica (1316 circa): Libri titulus est: 'Incipit Comoedia Dantis Alagherii, florentini natione, non moribus'. Ad cuius notitiam sciendum est quod commedia dicitur a 'comos' villa et 'oda' quod est cantus, unde commedia quasi ' villanus cantus'. Et est comoedia genus quoddam poeticae narrationis ab omnibus aliis differens. Differt ergo a tragedia in materia per hoc, quod tragoedia in principio est admirabilis et quieta, in fine seu exitu est foetida et horribilis: et dicitur propter hoc a 'tragos' quod est hircus et 'oda' quasi 'cantus hircinus', id est foetidus ad modum hirci; ut patet per Senecam in suis tragoediis. Comoedia vero inchoat asperitatem alicuius rei, sed eius materia prospere terminatur, ut patet per Terentium in suis comoediis. Et hinc consueverunt dictatores quidam in suis salutationibus dicere loco salutis 'tragicum principium et comicum finem '. Similiter differunt in modo loquendi: elate et sublime tragoedia; comoedia vero remisse et humiliter, sicut vult Oratius in sua Poetria, ubi licentiat aliquando comicos ut tragoedos loqui, et sic a converso ?Interdum tamen et vocem comoedia tollit, / iratusque Chremes tumido delitigat ore; et tragicus plerunque dolet sermone pedestri / Telephus et Peleus, etCommedia'. Et per hoc patet quod Comoedia dicitur praesens opus. Nam si ad materiam respiciamus, a principio horribilis et foetida est, quia Infernus, in fine prospera, desiderabilis et grata, quia Paradisus; ad modem loquendi, remissus est modus et humilis, quia locutio vulgaris in qua et mulierculae comunicant".
Si comprendono bene di fronte ad argomentazioni di questo tipo le perplessità di lettori antichi e moderni, a cominciare dal Boccaccio, che, seguito da Benvenuto, nelle Esposizioni sopra la Commedia di Dante, proprio riprendendo le giustificazioni dell'Epistola dantesca (che però non considerava di Dante), limita la convenienza del titolo alla materia, non allo stile, dell'opera. Dante infatti procede ben oltre la primitiva differenziazione dei generi comico e tragico sulla base dei diversi piani stilistici, affrontando il preciso e personale problema della definizione e del significato di Commedia, ossia del titolo del capolavoro, del quale stava stendendo l'ultima parte. Né si arresta alla spiegazione etimologica del termine, la quale riecheggia palesemente la glossa fornita dai grammatici medievali, o alla distinzione strutturale del genere (genus quoddam poeticae narrationis) che etichetta la 'commedia' narrativa medievale in forme ben lontane da quella classica. Egli contrappone la tragedia alla commedia in base allo sviluppo contenutistico dell'azione in esse rappresentata, assegnando alla prima (con insospettato rinvio a Seneca tragico) lo svolgimento da una situazione di partenza admirabilis et quieta a un esito finale drammatico (la conclusione foetida et horribilis), alla seconda (esemplificata inaspettatamente in Terenzio) lo sviluppo fra estremi inversi, dalla asperitas iniziale alla prosperitas terminale. Tale differenziazione contenutistica, parzialmente attestata già da Uguccione, avallata da esempi classici ignoti alle fonti medievali, è rincalzata successivamente da una caratterizzazione apparentemente stilistica (ad modum loquendi), che sembra ricalcare con qualche diversità nella dizione le qualifiche del trattato linguistico: elate et sublime tragoedia, contro comoedia vero remisse et humiliter. Nuovo risuona invece l'appello all'auctoritas oraziana, in forza della quale Dante rivendica ai poeti (e dunque anche per sé stesso) il diritto di trascorrere dalla tragedia alla commedia e viceversa. Ma nella verifica di queste proposizioni generali sull'ordito concreto del poema, Dante non si limita a provare che la sua Commedia rientra contenutisticamente negli schemi del genere comico, e giunge a giustificare lo stile remissus et humilis sulla base dello strumento linguistico impiegato, il volgare, ossia la lingua che possono intendere anche le donnette. Nella parte finale della definizione è dunque evidente il distacco dalle posizioni assunte nel De vulg. Eloq., ove il criterio distintivo dei generi puntava sui caratteri stilistici senza invocare argomenti linguistici. È stato perciò facile muovere appunti di vario genere a questa definizione, in forza della quale alcuni hanno addirittura preteso di dimostrare l'apocrifia dell'Epistola a Cangrande a altri di restringere la denominazione Commedia alla sola prima cantica. Conviene certo ricordare che Dante definisce comedia la propria opera soltanto nell'Inferno (xvi 128 e xxi 2) e che nel Paradiso (xxiii 62 e xxv 1) la rammenta come sacrato poema o poema sacro. Stando alla definizione dell'Epistola a Cangrande si verrebbe paradossalmente a ritenere prevalente lo stile comico nella parte tragica del poema, ossia nella cantica horribilis et foetida, e quello tragico nella materia comica, prospera, desiderabilis et grata, del Paradiso. Infine Dante smentirebbe l'opinione già professata nell'Inferno nel senso che il poema virgiliano, appellato tragedia, dal momento che da eventi dolorosi sfocia in una felice conclusione, rientrerebbe paradossalmente nel genere comico. Per ovviare a simili contraddizioni, dedotte dal raffronto con le opinioni precedentemente professate da Dante, s'è ricordato che il titolo di Commedia fu scelto dal poeta quando attendeva alla stesura della prima cantica e forse non pensava ancora al mondo descritto nella terza: concepita insomma come 'comedia' l'opera divenne poi un poema dai toni più alti, al quale mal conveniva la denominazione iniziale; che tuttavia Dante nell'impossibilità di mutare perché già diffusa (soprattutto con la prima cantica) cercò di giustificare con argomentazioni nuove rispetto alle primitive del De vulg. Eloq., incorrendo in qualche contraddizione con quanto aveva precedentemente affermato. In queste oscillazioni sarebbe celato l'imbarazzo definitorio di Dante, che dal lato contenutistico si rifà per la denominazione di Commedia alla tradizione retorica del tempo, mentre dal rispetto stilistico, come prova la citazione oraziana insieme alla coscienza, nettissima all'altezza del Paradiso, della grandezza del proprio poema sfuggente a qualsiasi schema grammaticale, cerca di liberarsene escogitando per esso una nuova, più complessa formula, che nell'ambito di un titolo tradizionale tenga conto della nobiltà del soggetto e dello stile, e tuttavia lo collochi in una sfera letteraria inferiore, secondo l'antica classifica, al genere 'sublime' del poema latino. Più storicamente altri ha rilevato che la 'comicità' stilistica, definita come locutio vulgaris che anche le femminette possono comprendere nell'Epistola a Cangrande, è ribattuta e precisata nella stessa direzione da Dante qualche anno più tardi come lingua volgare nelle Egloghe, dove appunto egli riprende i "vulgaria" rimproveratigli da Giovanni del Virgilio con i comica verba, identificando risolutamente il comico nel volgare. D'altra parte nell'originale richiamo a Orazio dell'Epistola a Cangrande è stata intravista una personale giustificazione di Dante a proposito di quanto nella sua Commedia si stacca con tonalità più alte dall'umile musica del genere 'comico'. Tenendo conto di questi elementi è stato possibile proporre una diversa spiegazione delle apparenti contraddizioni tra le due definizioni dantesche, relazionate al tempo in cui furono rilasciate e dunque alla carriera poetica di Dante: il quale nella formula del De vulg. Eloq. intendeva definire lo stile tragico delle grandi canzoni appena composte, separandolo dal comico, suddiviso in mediocre e umile, nell'Epistola a Cangrande mirava invece, attestato su altre posizioni in conseguenza dei nuovi interessi poetici che dalle Rime lo avevano portato al poema, a misurare le distanze intercorrenti tra stile umile e stile tragico. Di qui la constatazione che Dante, senza rifarsi alle affermazioni precedenti, anzi superandole d'un tratto, oppose la sua comedia volgare alla tragedia latina di Virgilio su basi linguistiche, mantenendo alla propria opera il titolo generico in forza di ragioni contenutistiche recepite dalla tradizione medievale e sul fondamento dell'umiltà del metro adottato, la terzina concatenata dedotta dal sirventese popolaresco. Né la definizione di poema rilasciata nel Paradiso, insieme alla qualifica di sacro o sacrato, che ben s'intona allo schema della narrazione negli estremi contenutistici fissati nell'Epistola XIII, contrasta con quello di comedia, in quanto significa genericamente "opera poetica".